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Raqqa, con le donne cecchino curde siriane

| Published on Millennium | November  2017 |

Reportage dal nord della Siria, a fianco delle donne cecchino delle YPJ e YBS, che stanno combattendo per la riconquista di Raqqa

La base militare delle donne cecchino è un casolare abbandonato, recintato da un cancello automatico, in una località segreta, alla periferia ovest di Raqqa. E’ un tardo pomeriggio di fine settembre. Il sole sta calando sugli scheletri degli edifici bombardati, ancora fumanti. All’ombra del patio, ventuno ragazze, sedute per terra, sorseggiano chay [tè, in arabo, nda] bollente e giocano a backgammon. Alcune di loro sono appena rientrate dal fronte e stanno parcheggiano i pesanti mezzi militari a loro disposizione; altre preparano armi e munizioni per una nuova operazione.

 <<Il primo colpo è il più importante>>, dice Asmin Kobane [nome di battaglia, nda], mentre pulisce il suo fucile di precisione. Ha diciannove anni, capelli corti, carnagione olivastra e occhi color smeraldo, traboccanti di determinazione.

<<Tutti possono andare al fronte e combattere con un’arma normale ma essere un cecchino è legato alla psicologia del tuo nemico. Quando sei un buon cecchino e colpisci il tuo obiettivo, distruggi il morale del tuo avversario con un solo proiettile. In questo modo, i miliziani di Daesh [acronimo in arabo per lo Stato Islamico, IS, nda] saranno scoraggiati e questo ti permette di avanzare con l’offensiva o portare a termine un’operazione militare. Ecco perché ho scelto di entrare in quest’unità. Perché puoi fermare il tuo nemico da sola”, spiega la giovane combattente.

Asmin fa parte del corpo speciale “Martire Nujan”, un nucleo di donne cecchino delle YPJ, le Unità di difesa delle donne. Le YPJ – dal curdo Yekîneyên Parastina Jin – sono una milizia femminile, formatasi nel 2012 in Rojava, la parte settentrionale della Siria, a maggioranza curda, al confine con la Turchia.

Dal tentativo di assedio di Kobane nel 2014 fino alla liberazione di Raqqa, avvenuta lo scorso 17 ottobre, le YPJ hanno ricoperto un ruolo centrale nella liberazione dei vasti territori conquistati dallo Stato Islamico, tra la frontiera turca e il fiume Eufrate, abitati da arabi, curdi, assiri, turcomanni e altre minoranze. L’inclusione di donne combattenti è stata, inoltre, una risposta intenzionale alla paura dei membri dell’IS di essere uccisi dalle donne, perché ciò impedirebbe loro di entrare in paradiso.

<< Quando sanno che ci sono delle donne sul fronte, i miliziani scappano, o si uccidono perché pensano di finire all’inferno. Questo altera la psicologia del nemico e di tutto il gruppo, rendendoli più fragili>>, spiega Saria Halab, una delle quattro comandanti delle truppe di Kobane, mentre stringe tra le mani un tablet su cui segna, in tempo reale, tutte le posizioni conquistate. Ci mostra un libro scritto in turco, ritrovato in una base controllata dai miliziani. E’ sul comportamento che gli uomini devono avere nei confronti delle donne nel rispetto dell’Islam: “Bisogna punirle quando non rispettano il marito o gli obblighi della vita domestica ma trattarle anche gentilmente ed essere premurosi, a seconda delle situazioni”, prescrive il libretto.

<<Viviamo in un mondo impregnato di patriarcato, indipendentemente dalla religione. E’ giunta l’ora di liberarcene e di conquistare tutte le posizioni occupate da sempre dagli uomini>>, afferma la comandante. <<Avere donne cecchino è una risorsa, per la pazienza e la capacità di attesa posseduta dal genere femminile. Le operazioni possono durare anche quattro giorni, in luoghi inimmaginabili, per esempio nascoste tra le macerie, all’interno di un edificio bombardato o in un tunnel. Ogni gesto è proibito, bisogna solo attendere il momento giusto>>, conclude la donna.

Il movimento rivoluzionario e femminista del Rojava vede l’arruolamento di numerose giovani curde come un duplice riscatto: della figura della donna del Medio Oriente e nel mondo, oltre a quello del popolo curdo.

Seduta accanto ad Asmin Kobane, un’altra giovane combattente si accende una sigaretta. Chiede di non essere fotografata perché, spiega <<Rispettiamo la società in cui viviamo, che è ancora molto conservatrice>>.

Il suo nome di battaglia è Ararat Kurdistan, ha ventitré anni e questa è la sua terza operazione militare, la prima come cecchino. <<Ho scelto di diventare cecchino perché questa figura ha una propria specialità: il rapporto con la propria anima, con la psiche e la forza di volontà. Per me tutte le donne possono combattere. Si devono fidare di sé stesse e immaginare di fare le stesse cose degli uomini. Questo concetto è legato all’ideologia e alla mentalità della società in cui si vive. Se una società t’insegna a essere forte, puoi combattere lo Stato Islamico o qualsiasi altra forma di tirannia o fascismo come facciamo noi>>, dice la combattente.

 Come Asmin, anche Ararat arriva da Kobane. Entrambe si sono diplomate e poi hanno intrapreso una formazione teorica e pratica di quattro mesi, con le YPJ. <<I miei genitori sono d’accordo e fieri che io sia qui. Stiamo combattendo per tutta la società, non solo per il popolo curdo>>, spiega la ragazza. E sull’amore lei dice <<Non c’è bisogno di amare un uomo. Puoi amare i tuoi amici, le tue compagne. Io ho fatto una promessa d’amore alla nostra rivoluzione>>.

Sembrano rigide e impenetrabili queste ragazze, come se indossassero forzatamente una corazza. Prima di salutarle, Ararat ci confida un segreto. <<Ogni sera scrivo un diario sulle nostre martiri uccise in battaglia. E’ un modo per tenere vivo il ricordo e trovare la forza di continuare questa lotta>>, ammette.

A pochi chilometri dalla base delle combattenti curde, nel quartiere Samra, a est di Raqqa, un’altra casa trivellata e abbandonata dai civili in fuga, è occupata dall’unità sniper delle donne ezide [yazide, nel gergo giornalistico, YJS, nda]. Insieme alle milizie curde dello YPG-YPJ, le YJS fanno parte delle Forze Democratiche Siriane (SDF), una piattaforma militare composta da milizie curde, arabe, siriaco-assire e turcomanne, sostenuta dagli americani per contrastare lo Stato Islamico.

Sulle pareti del salotto in cui ci accolgono, sono appese le foto dei martiri caduti in battaglia e il volto sorridente di Abdullah Ocalan, padre ideologico del confederalismo democratico, un progetto democratico dal basso, fondato su strutture orizzontali di autogoverno, che coinvolgono tutte le comunità della regione del nord della Siria.

Le donne cecchino dello YJS, provengono dallo Shengal [Sinjar, nda], il monte dell’Iraq orientale, dove i miliziani dello Stato Islamico, massacrarono la popolazione ezida nel 2014, provocando migliaia di morti, decine di migliaia di persone in fuga, rapimenti di donne e bambini, venduti come schiavi sessuali nei mercati di Mosul e Raqqa.

Erin, diciannove anni, è una ragazza minuta e schiva, un viso gentile e affettuoso e un tatuaggio con scritto Apo [diminutivo di Abdullah Ocalan, nda], sulla mano destra. <<Sono nata e cresciuta in Germania ma sono venuta qui per salvare le nostre sorelle ezide rapite dallo Stato Islamico e vendicarmi>>, afferma Erin. I suoi genitori si sono rifugiati in Germania, in seguito ai massacri verso i curdi, perpetrati dal regime di Saddam Hussein durante gli anni settanta e ottanta. <<Sono cresciuta con i racconti di mia madre ma sono due anni che non la sento. Lei era contraria alla mia scelta di venire qui a combattere>>.

A incoraggiarla, c’è la comandante dell’unità, Dersin Ezidxan, seduta accanto. <<Vogliamo vendicarci e combatteremo fino a quando l’ultima donna ezida sarà liberata>>. Dersin arriva da un villaggio nel cuore del monte Shengal. Non ha mai studiato e non s’immaginava di trovarsi a combattere. <<Ho scelto di seguire questa strada quando mio fratello si è unito allo YPG per difendere e proteggere la nostra terra>>, racconta la donna. <<Sui monti, quasi tutti ci sostengono, sono orgogliosi della nostra scelta. Poche settimane fa abbiamo liberato due ragazze ezide, rapite da Daesh e vendute come schiave sessuali. Hanno sofferto molto ma hanno scelto di unirsi a noi e farsi giustizia>>.

Scoppia a ridere quando le chiediamo se si vuole sposare. “Tutti i giornalisti mi fanno questa domanda. Non mi sposerò mai. Noi abbiamo sposato la nostra causa>>. E sul futuro la donna afferma: <<Ci sono altre battaglie da intraprendere non solo militari. Quando Raqqa sarà finita, continueremo questa lotta all’interno della nostra società affinché certe atrocità non si ripetano più>>.

In un villaggio nel cuore di Cizîr, uno dei tre cantoni insieme a Kobane e Efrîn, le parole di Dersin prendono forma. Circondato da distese di terra color argilla, Jinwar [jin, in curdo significa donna, nda] è il primo villaggio ecologico di sole donne, vedove, single o contrarie all’idea della famiglia classica. Le ventuno case, costruite in paglia e fango, sono state costruite da altre donne, arabe e curde, in fuga dall’Isis. Romet Heval è membro dell’accademia di Jinealogia, la scienza delle donne. E’ lei che ci spiega l’idea alla base di questo progetto. <<Tutte le associazioni, movimenti, consigli locali delle donne e delle famiglie dei martiri si sono riunite, in questi anni, per discutere come mettere al centro della nostra società la relazione tra donna e ambiente. Le strade possibili per le donne non sono solo quelle del matrimonio, del lutto a vita o rinchiuse in casa. Dobbiamo sconfiggere questa mentalità patriarcale ed eliminare l’Islam dalla vita politica>>, spiega Romet. Il progetto prevede un orto e una cucina comunitaria, uno spazio di aggregazione per le assemblee, un edificio per le piante medicinali, per attività di micro imprenditoria artigianale e un’accademia di Jinealogia, la scienza delle donne, che ha come obiettivo la rilettura della scienze, dei saperi e della storia.

<<L’economia, la salute, la storia, la demografia, l’ecologia, l’etica e l’estetica sono alcune delle materie di quest’accademia pubblica che vuole porre le basi per la costruzione di una società matriarcale, in armonia con l’ambiente. Dal punto di vista etico, la donna è molto più responsabile dell’uomo ma è importante che essa sia al centro dell’organizzazione della società, non solo sul campo di battaglia>>.

Un gruppo di donne, curve sul campo, prepara i mattoni impastando l’argilla con l’acqua. Sono tutte arabe e arrivano dalla città di Tabqa, liberata dallo Stato Islamico pochi mesi fa. “Siamo onorate di lavorare in questo progetto”, dice Mariam, <<E’ la prima volta che qualcuno apprezza il nostro lavoro e ci paga per quello che facciamo. E’ l’unico modo per essere davvero libere”.