Huda e Rawnaq in lotta per la vita
| Published on Jesus Magazine | December 2016 |
A Erbil, nel Kurdistan iracheno, una dottoressa musulmana sunnita e un’infermiera cristiano assira superano le divisioni religiose e insieme assistono le donne in fuga da Daesh. Intanto la guerra distrugge le realtà multiconfessionali.
Ashti in curdo significa pace. E’ un centro colorato su due piani, gremito di donne. Nella sala d’attesa, disegni di madri che allattano ravvivano le pareti scrostate. Su un’altra parete è dipinto un uccellino che esce dalla gabbia: simbolo della libertà riconquistata. A fianco sono appesi i poster della campagna contro il matrimonio precoce. La temperatura è insopportabile e sfiora i cinquanta gradi.
Alcune donne, con le pance più visibili, sono sedute accanto alle più anziane che le accompagnano. Altre, in piedi, rincorrono i bambini che scorrazzano negli androni più bui. C’è chi indossa gli abaya, chi hijab colorati e chi tiene il capo scoperto.
Tutte aspettano che la porta si apra per essere visitate dalla dottoressa Huda, l’unica ginecologa del centro per la salute riproduttiva. Huda, indossa un camice bianco e un hijab color corallo che le illumina il viso materno. Non si accorge della presenza di due giornaliste tanto è indaffarata. E’ nascosta da un separé medico in un angolo mentre visita una paziente sdraiata sul lettino con un moderno ecografo. Accanto a lei, seduta a una scrivania, Rawnaq, un’infermiera più giovane e minuta, la aiuta a compilare le schede delle pazienti e prepara le medicine da somministrare.
La dottoressa Huda, musulmana sunnita, e l’infermiera Rawnaq, cristiana assira, sono scappate dall’Isis nel giugno 2014 da Mosul, la loro città natale. Entrambe sono sfollate interne. Ogni giorno, insieme, visitano con premura e pazienza decide di donne in fuga dalla guerra in Siria o da cittadine e villaggi conquistati dallo Stato islamico.
La clinica Ashti è uno dei quattro centri per la salute riproduttiva e il supporto psico-sociale nel Kurdistan iracheno che permette alle donne irachene, siriane e curde di accedere gratuitamente alle cure mediche e ginecologiche. Le donne in attesa della visita hanno voglia di parlare. Si lamentano delle difficoltà economiche e di come sia difficile vivere in un paese che non hanno scelto.
“Mi hanno detto che era gratis e sono venuta”, racconta Fida, una ragazza di Aleppo di sedici anni, sposata e già incinta. “Siamo una famiglia numerosa e ho pensato che sposarmi fosse una buona idea perché c’è la guerra”, afferma ingenuamente. Saa è fuggita da Mosul due anni fa e aspetta il suo quarto figlio: “I miei vicini mi hanno parlato della clinica e sono venuta qui, perché è gratis”, spiega la giovane madre, accarezzandosi il ventre al nono mese di gravidanza.
L’idea alla base del progetto, finanziato dall’Agenzia Italiana per lo Sviluppo e la Cooperazione Italiana, implementato dalla Ong italiana Un Ponte Per e dal partner locale Al Mesalla, è quello di lavorare in parallelo con i Women Safe Spaces, gli spazi sicuri per le donne. “Quando una donna va in questi spazi, magari è depressa, magari ha bisogno di supporto medico o è vittima di violenza e lì può avere allo stesso tempo tutti i tipi di protezione; ha un supporto psicologico, può accedere alle cure mediche, ha assistenza legale ed economica”, spiega Marta Malaspina, capo progetto di Un Ponte Per.
A causa dell’alto numero di rifugiati siriani e sfollati interni in fuga dalle province irachene, il sistema sanitario curdo è al collasso. Per un profugo accedere alle cure private è proibitivo e spesso sono proprio le donne le più penalizzate.
“In generale qui [in Iraq] non esiste la cultura di andare dai dottori o dai medici per i controlli durante la gravidanza”, spiega Diana Kako, assistente sociale di Al Mesalla. “Con la guerra e la conseguente fuga, le condizioni sono peggiorate anche perché poche famiglie possono permettersi di pagare un dottore”, chiarisce Diana. “Tuttavia, una delle maggiori preoccupazioni delle donne è non poter rimanere incinta”.
In realtà, i problemi principali sono le infezioni a causa delle precarie condizioni igieniche, le numerose gravidanze, i matrimoni precoci e le anomalie congenite dei feti dovute ai matrimoni, spesso combinati, tra membri della stessa famiglia. Quest’ultima problematica è più diffusa tra le comunità che provengono da villaggi rurali ma nel caso del matrimonio precoce, la guerra ha diffuso il fenomeno. Far sposare una figlia molto giovane non è questione di crudeltà ma di sopravvivenza, soprattutto quando una famiglia è numerosa e le condizioni economiche peggiorano. Per questo nelle cliniche, le dottoresse cercano di fare anche la pianificazione famigliare.
“Sono musulmana e sono contraria all’aborto ma credo che ogni donna debba tutelare la propria salute”, spiega la dottoressa Huda. “Fare dodici, tredici figli senza programmazione e controllo medico è rischioso, ma questo è un problema del nostro paese, perché sono soprattutto gli uomini ad insistere”, dichiara la ginecologa. “Il nostro problema è che i mariti, il più delle volte, decidono tutto. Lui vuole un maschio e la donna lo deve accontentare, altrimenti lui potrebbe risposarsi e questo poi, diventerebbe un problema per la donna. La pressione sociale soffoca queste donne. Noi cerchiamo di spiegare che il sesso del bambino dipende dall’uomo che può donare X o Y”, aggiunge Huda.
Dal 2012, nel Kurdistan iracheno è stata introdotta una legge sulla violenza domestica che pone una forte limitazione agli uomini che si vogliono sposare con una seconda donna. Ciò è possibile solo se la prima moglie firma un documento in cui acconsente al matrimonio del marito. Inoltre, per la prima volta, la legge concede alla donna il diritto di divorzio, oltre a considerare illegale la pratica della mutilazione genitale e del delitto d’onore.
Gli esami ginecologici vanno avanti senza sosta. Ogni volta che la porta si apre, si affacciano quattro o cinque donne lamentandosi e chiedendo di essere visitate.
“Mi piace il mio lavoro, è tutta la mia vita, ma è molto difficile”, racconta la dottoressa mentre compila una scheda di una paziente. “Come vedi, in quattro ore visitiamo fino a quaranta donne. Non c’è abbastanza personale, anche perché molte persone preparate sono fuggite all’estero”.
La dottoressa si è laureata in medicina all’università di Mosul nel 1987, ha lavorato in diversi ospedali fino al 2002 quando ha scelto di iniziare la scuola di specializzazione in ginecologia. “Mi piaceva l’idea di lavorare con le donne e ho scelto questa strada”, spiega, accennando un timido sorriso. “Ho sempre lavorato, anche con turni peggiori di quelli attuali”, continua a raccontare.
La dottoressa è fuggita con il marito e i suoi quattro figli poco prima che Mosul fosse proclamata capitale dello Stato islamico nel giugno 2014.
“Non avrei mai immaginato che la mia vita cambiasse in questo modo. E’ difficile lasciare la tua famiglia, la tua casa, il tuo lavoro. Io sono scappata perché i miei bambini erano terrorizzati dai continui bombardamenti. Urlavano, piangevano, non dormivano più, così io e mio marito abbiamo scelto di andare via ma la mia famiglia è ancora dentro Mosul. Vivono in una situazione drammatica, non ci sono soldi, né lavoro. Sono preoccupata per le loro vite e temo che tutto peggiorerà dopo la liberazione, perché questa guerra metterà gli uni contro gli altri e la pace che conoscevamo sarà solo un ricordo”. Quando Huda parla della famiglia, la voce diventa flebile e gli occhi lucidi. Trattiene le lacrime fino alla fine dell’intervista. “E’ difficile prevedere il futuro in questo momento. Solo Dio sa cosa accadrà”. Huda e Rawnaq si guardano con uno sguardo complice. Il loro Dio è diverso ma per loro poco importa.
“In questa guerra siamo tutti vittime”, afferma la giovane assiro cristiana. “Entrambe siamo fuggite e abbiamo perso tutto, come le donne che visitiamo. Non abbiamo nessun problema a lavorare insieme. A Mosul siamo sempre stati abituati alla diversità religiosa. Le feste per esempio, le ho sempre celebrate con i miei vicini musulmani”, ci tiene a ribadire l’infermiera.
Mosul è sempre stata una città multi confessionale e multietnica dove le differenti comunità vivevano insieme da secoli. Dalla conquista avvenuta nel giugno 2014 da parte dei jihadisti, la maggioranza dei cristiani è stata epurata dalla città ma anche le altre comunità sono state costrette alla fuga o alle spaventose condizioni imposte dallo Stato islamico.
Rawnaq è scappata dalla sua città con la famiglia e all’interno di Mosul ha ancora degli amici intrappolati.
“E’ impossibile parlare con chi è rimasto a Mosul”, spiega l’infermiera. “Devono stare attenti a tutto perché rischiano di essere torturati o uccisi”. E sul futuro racconta. “Ho pensato di andare in Europa ma solo per turismo perché se potessi, tornerei a casa mia”. Sospira, mentre pronuncia queste parole. In fondo sa che questo non accadrà molto presto. “Prima, il mio sogno era fare un dottorato ma ora è tutto più complicato, quindi ho smesso di pensare al ritorno”. Cala la tristezza sul suo volto. Ci tiene comunque a raccontare del prezioso lavoro accanto alla dottoressa Huda. “Nonostante tutto, mi rendo conto che siamo molto fortunate. Abbiamo un lavoro e queste donne hanno bisogno di noi. Questa per me è un’esperienza professionale importante; imparo molto da lei [Huda] anche se, spesso, il nostro lavoro è doloroso soprattutto quando trovi casi di donne violate”.
La guerra in Siria e in Iraq ha reso più critica la condizione delle donne. I mariti sono diventati più violenti, frustrati e diversi sono i casi di stupro coniugale. “Nel campo profughi di Bahrka [alle porte di Erbil] molti uomini bevono, un po’ per noia, un po’ per insoddisfazione”, racconta un’altra assistente sociale del centro Ashti. “Ci sono molti casi di violenza domestica e qui [al centro] cerchiamo di fare dei workshop con le donne per farle parlare. Organizziamo corsi di cucito, di lingua curda o di make-up. E’ uno stratagemma per farle partecipare, tenerle occupate e aumentare la loro consapevolezza”.
Le visite stanno per terminare e i volti di Huda e Rawnaq sono affaticati dalla lunga giornata. Sterilizzano gli attrezzi, riordinano la stanza e si lavano le mani. Insieme escono per ritornare nelle rispettive case. Domani sarà un altro giorno estenuante e altre donne avranno bisogno di loro.