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I cristiani in Iraq dopo l’Isis

| Published on Credere | 17 November 2017 |

Ad un anno dalla liberazione dei territori conquistati dai miliziani dello Stato Islamico, qual è la situazione per chi ha scelto di tornare?

<<Bentornati>>, c’è scritto su un cartello appeso all’entrata della chiesa siriaca cattolica di S. Giovanni a Qaraqosh. E’ un giovedì di fine settembre e si celebra la festa della Croce. Il piazzale è gremito di persone. Le donne e le bambine, con i ventagli in mano, indossano gli abiti delle ricorrenze importanti, divise dagli uomini, seduti nelle navate centrali. Dalla loggia della chiesa si scorge, non molto distante, un minareto rimasto intatto. E’ l’ora della ṣalāt al-maghrib – la preghiera islamica del tramonto – ma la voce del muezzin non risuona più. Non suonano neanche le campane. Il campanile della basilica è stato distrutto e non è ancora stato ricostruito. Si ode solo la voce di Padre Majeed Attalla, in aramaico antico, accompagnata dai lamenti delle donne più anziane.

Qaraqosh è una cittadina a maggioranza cristiana, situata a pochi chilometri da Mosul, nella piana di Niniveh, una zona abitata dalle minoranze assire, ezide, shabaki, turcomanne. E’ stata liberata un anno fa, dopo che i miliziani dello Stato Islamico l’avevano conquistata nel 2014 e costretto alla fuga quasi sessantamila abitanti. Dopo tre anni di sofferenza e di esilio, quasi duemila famiglie hanno scelto di ritornare in quello che rimane delle loro case.

“Siamo tornati un mese fa, nella nostra casa bruciata”, dice Rana P., seduta davanti al sagrato con i suoi tre figli. “Non abbiamo problemi con i musulmani. Ci sentiamo sicuri adesso, ma abbiamo paura della mentalità che l’Isis ha trasmesso ai più giovani. La chiesa è l’unica istituzione che ci sta aiutando nella ricostruzione, non c’è nessun altro”, lamenta la donna.

A Qaraqosh – in siriaco Bakhdida – le strade sono ancora colme di macerie e detriti. Ci sono quasi 2500 case bruciate, 116 distrutte dai bombardamenti e 4262 sono quelle saccheggiate. I dati sono stati raccolti dalle trentasei chiese locali che hanno realizzato un censimento per avviare i primi lavori di riabilitazione delle abitazioni meno danneggiate.

Nella cappella laterale, a fianco dell’entrata principale, tutto sembra come un anno fa. Gli uliveti sono ricoperti di fuliggine nera. Il pulpito è in frantumi, le statue dei santi decapitate. Un gruppo di bambine gioca a collezionare i bossoli, disseminati sul lastricato. In un’altra sala, le stele dei caduti del conflitto tra Iraq e Iran, durato dal 1980 al 1989, ricordano che la guerra, in Iraq, è presente da circa trent’anni quasi ininterrottamente.

“Non c’è più uno Stato. Siamo in mano a bande e milizie che pensano solo ai propri interessi”, spiega Ammar G., ingegnere civile iracheno. “Guardate”, dice, indicando i mezzi blindati dell’esercito iracheno, posizionati negli incroci della cittadina, “Oggi c’è il governo ma di solito non lo vedi. Le strade sono ancora rovinate, l’elettricità e l’acqua vengono a intermittenza. Non sappiamo cosa succederà domani”, racconta. “Prima, nessuno parlava di religione. Non avevamo problemi con i musulmani. Si è voluto deliberatamente settarizzare il paese ma è solo per affari. Adesso, con la fine dell’Isis, si inizia a parlare di curdi e arabi per creare un’altra divisione. Sono solo scuse per gli interessi energetici che ci sono in questo paese”.

Terminata la messa solenne, nel piazzale antistante alla chiesa, i volontari distribuiscono un piatto di lenticchie. Gruppi di donne, uomini e bambini danzano i balli tradizionali attorno a un falò, acceso per l’occasione.

“E’ una gioia immensa vedere tutte queste persone qui”, afferma Majeed Hazeem Attalla, prete e segretario dell’Arcivescovo di Qaraqosh. “E’ difficile dimenticare il 6 agosto 2014. Più di 120.000 persone sono fuggite, lasciando le proprie case e dormendo per strada. Abbiamo capito che la nostra fede era in pericolo. I musulmani si sono sentiti padroni delle nostre terre e ci hanno trattato come schiavi. Erano i nostri vicini di casa e ci hanno pugnalati. Oggi siamo qui, di nuovo, nelle nostre terre ma non è facile tornare a fidarsi, dopo tutto quello che abbiamo vissuto”.

Benché molte famiglie abbiano scelto di ritornare, il numero dei cristiani in Iraq è drasticamente diminuito da tre milioni, nel 1980, a 200.000 persone nel 2015, secondo il rapporto “Cristiani e Yazidi in Iraq”, realizzato dalla Fondazione Konrad Adenauer. Non è la prima volta che scappano.

Nel corso del ventesimo secolo, la minoranza assira è stata oggetto di diversi massacri e persecuzioni. Fra il 1915 e il 1916, ebbe luogo il genocidio delle minoranze cristiane (armeni, assiri e greci) che facevano parte dell’impero ottomano. Nel 1933, nel distretto di Simel, a nord dell’Iraq, almeno tremila assiri furono massacrati da tribù arabe e curde che rispondevano agli ordini dell’esercito iracheno. La comunità cristiana finì anche nel mirino dei ribelli curdi, che colpirono numerosi villaggi cristiani tra il 1978 e il 1980, con il pretesto che fossero alleati di Saddam. Dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003 e l’invasione militare americana, la situazione per tutte le minoranze religiose ed etniche è drasticamente peggiorata. Tra il 2006 e il 2010, numerosi attentati terroristici, commessi da gruppi di matrice islamica radicali, come Al Qaeda, hanno causato una fuga massiccia dei cristiani da Falluja, Baghdad, Anbar e, con l’arrivo dello Stato Islamico, anche delle altre minoranze. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), sono più di tre milioni gli iracheni sfollati all’interno del paese ma la diaspora irachena raggiunge il Canada, l’Europa e l’Australia.

Anche Ahmad, Nour e i loro amici vorrebbero partire e lasciare l’Iraq. “Noi tutti vogliamo andarcene all’estero”, dicono seduti in cerchio di fronte al grande falò, “Non ci sentiamo più sicuri e dobbiamo pensare al futuro dei nostri figli”, ripetono. E sulla relazione con i musulmani, Nour vuole prendere la parola. “Io non ho nessun problema, ho tante amiche musulmane che oggi mi hanno fatto gli auguri per la festa della Croce. Dobbiamo ricordarci che, anche per la maggior parte di loro, Daesh – acronimo per Stato Islamicoè stato causa di sofferenze”, afferma la giovane donna.

Sulla strada che da Qaraqosh conduce verso a Erbil, capoluogo del Kurdistan iracheno, abbondano milizie, bandiere ed eserciti. Il passaggio è difficoltoso. Gli arabi sono fermati ai check-point curdi e viceversa. I villaggi cristiani sono presidiati dall’esercito iracheno ma alcuni sono stati conquistati dalle milizie sciite di Hashd al-Shabi che hanno comprato terre e case, appartenenti storicamente alla comunità cristiana. Le tensioni tra il governo centrale e quello di Massoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, sono cresciute in seguito al referendum per l’indipendenza indetto, lo scorso 25 settembre, per la gestione di alcune zone contese, ricche di petrolio e territorialmente strategiche, tra cui Kirkuk e la piana di Niniveh.

Yohanna Petros Mouche, arcivescovo della Chiesa Siriaca Cattolica, è appena ritornato da un viaggio dal continente australiano. Lì, vive una delle più grandi comunità di cristiani caldei iracheni. Durante l’incontro, davanti ad una tazza di caffè, nella sua residenza a Qaraqosh, l’arcivescovo parla di dialogo e di riconciliazione. “Non è facile per un cristiano vivere in un paese musulmano ma dobbiamo ricordarci che abbiamo sempre vissuto insieme, fianco a fianco. Dobbiamo tornare a fidarci e saper perdonare”, ribadisce. E sulla vicinanza al governo centrale di Baghdad o a quello del Kurdistan, lui sa già quale sarà la loro posizione. “Noi, qui siamo una minoranza e andremo con chi vince. L’importante è sentirsi al sicuro”, conclude.