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A Raqqa, nel carcere delle donne della Jihad

| Published on Il Venerdì Repubblica | 27 November 2017 |

In una prigione siriana incontriamo le mogli (o vedove) dei miliziani dell’Isis. Qualcuna è pentita, qualcuna innamorata, qualcuna ci crede ancora. Che ne sarà di loro?

Aisha resta bloccata a Raqqa con i suoi figli e lì incontra il suo secondo marito, Abo Omar Al-Magribit, un miliziano marocchino dell’Isis, figlio di ricchi commercianti d’oro. S’innamorano e decidono di sposarsi. «Voleva combattere il regime di Assad. Suo cugino gli mandava i video delle torture e dei civili ammazzati. Voleva unirsi al movimento di liberazione ma quando è arrivato a Raqqa ha visto l’altra faccia della medaglia». Colori e animali proibiti sugli abiti dei bambini. Multe agli uomini rei di fumare, frustate alle donne, torture, decapitazioni. «Mio marito si è pentito della sua scelta due mesi dopo essere arrivato a Raqqa. Voleva tornare in Marocco ma gli hanno sequestrato il passaporto. Quando ci siamo sposati, abbiamo provato a fuggire ma era difficile, e servivano diecimila dollari per pagare un trafficante che ci portasse fuori».

Con l’inizio dell’offensiva per la riconquista di Raqqa e con i miliziani dell’Isis impegnati sul fronte militare, numerose famiglie dello Stato Islamico e migliaia di civili sono riusciti a fuggire. Circa trecentomila profughi sono transitati da Ain Al-issa in questi dieci mesi, e novemila sono gli sfollati che vivono in questo sterminato accampamento di tende allineate. «Le persone in fuga da Raqqa avevano tre scelte: scappare verso zone controllate dal regime, seguire i miliziani dell’Isis verso Dayr az Zor e al-Mayadeen o rifugiarsi nei territori controllati dalle Forze siriane democratiche. L’80 per cento ha scelto la terza opzione» spiega Abdul Salam Ham Surk, responsabile del comitato degli aiuti umanitari del nuovo Consiglio civile di Raqqa, guidato da un curdo e da un arabo.

Anche Aisha e il marito si sono consegnati alle Forze siriane democratiche, un’alleanza curdo-araba mista ad alcune tribù locali, sostenuta dagli Stati Uniti, in funzione anti-Isis, con prevalenza di combattenti curdi delle unità di difesa popolare, Ypg e Ypj, vicini al Pkk. Lui è stato
arrestato e rinchiuso in carcere a Qamishlo, mentre lei attende insieme ai figli, in questo campo, come in un limbo. Non sa cosa ne sarà di lei.

Mentre il progetto dello Stato Islamico si sgretola in Siria e in Iraq, il destino delle donne e dei bambini rappresenta una delle sfide più grandi per le autorità locali e per i governi occidentali. Poche settimane fa un gruppo di mogli dei miliziani, indonesiane e russe, è stato rimpatriato nei rispettivi Paesi, in seguito ad alcuni accordi diplomatici, ma per le donne siriane il futuro resta incerto. Tutto dipenderà da come finirà la guerra civile e da chi controllerà il territorio. Intanto, sulla linea di confine che segna l’inizio del governatorato di Raqqa, la foto di Bashar al-Assad è stata rimossa. Al suo posto sventolano le bandiere verdi e gialle con la stella rossa di Ypg e Ypj, rivelatesi fondamentali a Kobane.

In uno squallido angolo cottura, la giovane Khadija al-Humri soffrigge pomodoro e cipolla su una bombola di gas, per le sue tre piccole creature che conoscono solo l’orizzonte del campo recintato: «Voglio ritornare in Tunisia, dalla mia famiglia» dice. Suo fratello è in Italia ma non vuole parlarle da quando ha saputo che ha preso parte allo Stato Islamico. «Nessuno lo sapeva, io e il mio primo marito siamo andati in Libia e poi in Turchia. Lì ci hanno aiutato ad attraversare il confine. Passava tutto: uomini, armi e droni». Il marito è stato ucciso in un combattimento dall’Esercito siriano libero e lei ha vissuto in una madafa, un pensionato femminile. Dice di essersi pentita e di aver commesso un grande errore. «I membri dell’Isis bevono whisky, prendono droghe, vendono le donne nei mercati. Pensano solo a soldi e potere. Appendevano le teste in mezzo alla strada come monito. Non puoi fidarti di nessuno, perché la polizia segreta è ovunque. Quando chiacchiero con le altre donne, io dico che dobbiamo tornare a casa, che quello non era il vero Islam. Alcune di loro mi dicono “no, non è vero, non è così”, vogliono tornare nello Stato Islamico».

È tardo pomeriggio. Il sole surriscalda  ancora il tetto in lamiera che offre un po’ di ombra a questo ginepraio di vite in sospeso. Agiar, 22 anni, di Hama, chiama a raccolta le altre donne per la terza preghiera. Ghermisce il Corano tra le mani, con un’espressione superba. «Lo Stato Islamico non è ancora finito» sentenzia in arabo, «andrò in Russia». Agiar non vuole rilasciare un’intervista. Le altre donne riferiscono che è una combattente, che insegnava le arti marziali ai bambini nelle scuole dell’Isis.

Avvicinandosi ai villaggi liberati, alle porte di Raqqa, l’Eufrate e i suoi rivoli trasformano il paesaggio brullo in rigoglioso. Si scorgono bambini anneriti pascolare le greggi, tende di tribù beduine, mercati di baratto del bestiame e motociclette che zigzagano sulla strada danneggiata dai veicoli militari e dai bombardamenti della coalizione. Le donne curve nei campi di bulgur, gli uomini trafficano mazout, un tipo di gasolio che è il nuovo business di guerra. Veicoli carbonizzati, edifici accartocciati, case e ponti bombardati segnano la vicinanza alla linea del fronte, spostata all’interno della città di Raqqa. L’ong italiana Un Ponte Per e la Mezzaluna Rossa Curda sono le uniche organizzazioni ad assistere feriti e civili in fuga. Nel cortile di una casa, non molto lontano dalla clinica, un gruppo di donne stende i panni. Sono scappate da Raqqa un paio di mesi fa e hanno occupato una vecchia base logistica dei miliziani. Hanno ricominciato a indossare le tradizionali vesti multicolori. Il cielo è occupato dagli elicotteri e il silenzio apparente è rotto dal boato dei bombardamenti. Accanto a loro una bambina vispa e sorridente afferra un pupazzo. Prende un foulard nero e lo avvolge intorno alla sua bambola. Le copre il corpo, il viso e gli occhi. Le stacca la testa e la ripone in una cassetta di frutta.