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Sivar 19 anni, transessuale, nel centro Helem di Beirut, Sara Manisera

Nel primo centro lgbt in medio oriente

| Published on Millennium | August 2017 |

In Libano, a Beirut, un appartamento è divenuto un luogo centrale per la comunità LGBT. Qui gay, lesbiche, trans si incontrano cucinano, partecipano alle attività di prevenzione sessuale, ai dibattiti ma soprattutto vivono apertamente la propria sessualità senza la paura di essere fermati dalle forze di polizia.

L’appartamento che ospita Helem è al secondo piano di un edificio residenziale, nel cuore della movida di Beirut, circondato da bar e ristoranti. Su una tela, appesa all’ingresso, è dipinta, in rosso, la parola “Libertà”. “Non scrivere il nome del quartiere”, mi prega Joseph Aoun, direttore di Helem, “Cerchiamo di proteggere le persone che vengono in questo centro”.

Helem, in arabo sogno, è la prima organizzazione LGBT del Libano e del Medio Oriente. Nata come movimento clandestino online nel 1998, si è poi evoluta nel circolo chiamato “Club Free”, grazie al quale si organizzavano incontri, serate, eventi e gite. Nel 2004 infine, Helem, è ufficialmente istituita come organizzazione per la “protezione libanese per gay lesbiche e transgender”.

All’interno di questa casa, gay, lesbiche e trans si incontrano, cucinano, partecipano alle attività di prevenzione sessuale, ai dibattiti ma soprattutto vivono apertamente la propria sessualità senza la paura di essere fermati dalle forze di polizia.

“Nel 2014 sono stato arrestato per la mia sessualità e perché sono un attivista LGBT. Mi hanno bendato per sei ore e umiliato davanti ai miei genitori”, spiega Aoun. “Mi hanno chiesto se mio fratello avesse abusato di me da bambino, come faccio sesso, se vengo penetrato, se mi prostituisco. Alla fine hanno domandato a mio padre ‘Lo sai che tuo figlio è frocio?’. Non immaginavo di poter essere umiliato da un’Istituzione che avrebbe dovuto proteggermi. Conosco i miei diritti perché sono un avvocato e mi sono difeso ma la fortuna è stata la mia famiglia che era a conoscenza della mia sessualità”, racconta Aoun.

Sebbene il Libano sia più tollerante rispetto ad altri paesi del mondo arabo, l’articolo 534 del codice penale punisce fino a un anno di carcere i rapporti sessuali che “contraddicono le leggi della natura”. “Questo articolo”, chiarisce l’avvocato libanese, “deriva dalla legislazione francese introdotta durante il mandato francese sulla Siria e sul Libano. Prima di questa legge, l’impero ottomano, che governava questi territori, aveva decriminalizzato l’omosessualità, già nel 1858”. Oggi, il Libano è uno degli otto paesi, insieme al Cameroon, Egitto, Kenya, Tunisia, Turkmenistan, Zambia e Uganda a praticare ancora il test anale sulle persone sospettate di essere omosessuali.

Lo scorso 26 gennaio, il giudice libanese Rabih Maalouf ha emesso una sentenza che afferma che “l’omosessualità è una scelta personale e non un reato punibile”. Maalouf è il quinto giudice ad andare contro l’articolo 534 del codice penale libanese. Anche l’Associazione degli Psichiatri libanesi si è pronunciata chiedendo l’abolizione del reato. Nonostante le recenti aperture e la maggior tolleranza nella capitale, nelle regioni più rurali persistono forme di discriminazione e fanatismo.

“Non è un problema legato alla religione”, spiega il direttore dell’associazione LGBT, “Il mio ex fidanzato abitava in un quartiere a maggioranza sunnita e lui era di famiglia sciita ma ateo. Nessuno ci ha mai attaccato. E’ un problema della società. Noi viviamo in una società patriarcale molto conservatrice e oppressiva”, conclude Aoun.

In un’altra stanza dell’appartamento, Twael, coordinatore dei volontari di Helem, mi mostra la prima libreria queer. Molti dei libri e dei film esposti sono censurati in Libano. Twael B. ha ventidue anni, un piercing sulla lingua e indossa una canotta di un gruppo metal libanese. Studia ingegneria meccanica all’università ed è omosessuale. La sua famiglia vive a Dahiye, quartiere popolare e conservatore, a maggioranza sciita, nella periferia di Beirut.

“I miei genitori non accettano la mia omosessualità. In qualche modo, in Libano siamo tutti discriminati nella sfera privata o in quella pubblica. Se vai in certe aree, alcuni militari ti fermano, controllano le tue cose, il tuo telefono. Non sei libero di indossare ciò che vuoi. Ogni volta che vado a casa dei miei genitori, mi obbligano ad aspettare anche un’ora ai check-point perché ho i piercing e pensano che sia gay, ma in altre zone del Libano ti arrestano e ti possono anche aggredire e torturare”, racconta il giovane studente universitario. Per lui Helem è una casa, “un posto sicuro, dove puoi essere chi vuoi, parlare come vuoi senza la paura di essere sorvegliati”.

 Trans, gay e rifugiati

Sul balcone che affaccia sulla strada intasata dal traffico, Mohammed fuma una sigaretta. E’ un infermiere siriano, originario di Homs, rifugiatosi in Libano con sua moglie e sua figlia. “Sapevo già di essere gay ma in Siria era più difficile uscire allo scoperto”. Da quando è scappato in Libano, quattro anni fa, Mohammed ha lasciato la moglie e oggi ha un compagno. Tuttavia, per lui, la discriminazione è doppia per essere gay e al tempo stesso rifugiato. “Le comunità LGBT più marginalizzate in Libano sono i rifugiati e i trans”, spiega il coordinatore dei volontari, “per questo cerchiamo di essere il più possibile inclusivi in questo centro”.

Sul divano, nel salone principale, Sivar, in arte Mimì, gioca con un altro ragazzo gay. Sivar ha diciannove anni, proviene da una famiglia ortodossa conservatrice ed è una drag queen. Mi racconta le difficoltà quotidiane da trans in Libano. “Io non mi sento libera. In alcune zone posso indossare i tacchi, il reggiseno ma in altre aree questo potrebbe mettermi in pericolo e quindi evito di farlo. Molte volte mi hanno insultata”, racconta, “ma è una battaglia che va fatta per i diritti, non solo LGBT ma di tutti i cittadini”.