La battaglia contro ISIS è ancora lunga
| Published on Lookout News | April 2017 |
La lenta avanzata al fianco dei soldati dell’esercito di Baghdad tra le macerie della roccaforte jihadista. Reportage da Mosul ovest.
«Guardate», esclama Alì Ahmed, indicando un veicolo kamikaze neutralizzato, «questa era un’auto pronta a esplodere. Le hanno preparate nei mesi precedenti, riempite di granate e di C4 (esplosivo al plastico)». Alì, ventisei anni di Babel, appartiene all’unità di sminamento, responsabile del disinnesco delle autobombe e delle trappole esplosive lasciate dai miliziani in ogni angolo, negozio e casa a Mosul.
Lo scorso 19 febbraio, il primo ministro iracheno Haider al-Abadi ha annunciato l’inizio delle operazioni militari per la riconquista della parte ovest di Mosul dai miliziani dello Stato Islamico. La prima fase dell’offensiva si è conclusa il 24 gennaio, con la presa della zona orientale della città, grazie al supporto dei bombardamenti della coalizione internazionale a guida statunitense. La battaglia per la liberazione di Mosul, caduta in mano al gruppo estremista nel giugno 2014, è il più grande dispiegamento di forze irachene dall’invasione americana del 2003.
Il quartiere nella parte occidentale di Mosul, adiacente Bab Jadid, è spettrale e in frantumi. S’intravede qualche famiglia che è tornata a recuperare i pochi oggetti e averi: una lampada a olio, delle coperte, i documenti. «Ho perso un figlio e l’altro è disabile per colpa di un cecchino», racconta Bassel, cinquant’anni, mostrando le carte del figlio estratte da un sacco di iuta che trasporta sulle spalle. «Non abbiamo scelta, non ci sono case sicure qui, non abbiamo acqua, né elettricità».
Le strade, presidiate dalla polizia federale, sono squarciate dai mortai e aperte da enormi voragini. Le insegne dei negozi oscillano, i palazzi sono crivellati e anneriti, i vetri sbriciolati a terra. In alcuni incroci si avvistano gli scheletri di autobombe carbonizzate fatte esplodere dai miliziani dell’ISIS. Sui muri degli edifici distrutti, sono scritti, in rosso e in blu, i nomi dei battaglioni che hanno liberato il quartiere. Gli unici colori in mezzo al grigiore della polvere e delle macerie.
Benché quest’area sia stata liberata due settimane fa, i soldati raccomandano di stare ai lati della strada e di non toccare niente. L’esercito iracheno sta avanzando ma non ha ancora bonificato gli edifici riempiti di ordigni e trappole esplosive. Sopra le nostre teste, continua incessante il rumore delle mitragliatrici degli elicotteri e dei mortai. A poco meno di cinquecento metri dalla nostra posizione si ergono alcune barricate fatte in lamiera, terra e altri oggetti metallici, che segnano uno dei fronti in città. Oltre quella barriera, ci sono i miliziani dello Stato Islamico. Pochi minuti dopo, una colonna di fumo si eleva davanti a noi: è un mortaio lanciato dall’ISIS verso le posizioni della polizia irachena.
«Siamo abituati a vivere sotto le bombe», risponde in inglese un uomo anziano, che si affaccia dalla porta della sua casa al piano terra. «Lascio Mosul solo se muoio. Se ce ne andiamo, chi rimane qui? Il deserto?» domanda con un tono di rimprovero e di rabbia. «Hanno voluto distruggere Mosul, quest’area ricca di storia e cultura» conclude, chiudendo il cancello. All’entrata del quartiere vecchio di Bab Jadid, vicoli e stradine s’intersecano in un dedalo. Un altro uomo anziano, seduto sulla sedia a rotelle, osserva i giornalisti attraversare il suo giardino. La polizia ci sta accompagnando dentro un edificio sulla linea del fronte.
A differenza delle altre fasi dell’offensiva, in questo momento il fronte è liquido, fluido, in continuo movimento. La Golden Division e la polizia federale irachena avanzano di qualche strada ma spesso retrocedono. Il conflitto a Mosul è una guerriglia urbana che si sta combattendo a piedi, casa per casa, strada per strada, all’interno delle abitazioni dei civili o sui tetti dei palazzi dove sono posizionati i cecchini.
Di fronte alla resistenza dell’ISIS e all’aumento delle vittime, le forze armate irachene stanno rallentando le azioni militari. Mosul, oggi, si trova completamente circondata, ma l’esercito deve affrontare le linee difensive dell’ISIS, attraversando i vicoli e le stradine del centro storico, senza la copertura dei bombardamenti della coalizione internazionale e senza i mezzi blindati che non riescono a passare nei vicoli stretti della città vecchia. La casa di Khaled Ahmed è sulla linea del fronte. Nel salotto, dove sua moglie serve il pasto ai soldati, è appesa la bandiera irachena. «Abbiamo scelto di non fuggire. Ero un poliziotto e l’ISIS mi cercava. Mi sono nascosto in tutto questo periodo. Nessuno sapeva fossi un informatore. Non volevo andarmene, volevo solo ritornare al mio lavoro e restare nella mia città», racconta Khaled, mostrando un certificato rilasciato in seguito a un training dell’esercito americano.
Negli ultimi tre anni, la sua abitazione è stata un luogo essenziale per l’esercito iracheno; prima base dell’intelligence, da dove Khaled chiamava per informare sulle attività dell’ISIS. Oggi è una base della polizia dal cui terrazzo è possibile avvistare la moschea di Al-Nouri. È in quella moschea che, nel giugno 2014, Abu Bakr al-Baghdadi apparve, con il volto scoperto e un mantello nero, proclamando l’instaurazione dello Stato Islamico. Ed è con la riconquista di quella moschea che il Califfato potrà subire una morte simbolica. Accanto a Khaled, sua figlia Jaliam gli stringe la mano e sorride. «La peggiore cosa che ho visto è stata la povertà, l’assenza di cibo e l’uccisione di molti colleghi, ammazzati dall’ISIS perché erano poliziotti. All’inizio, quando sono entrati in città, la vita sembrava uguale a prima, ma dopo pochi mesi sono arrivati tantissimi foreign fighters», spiega l’uomo.
Secondo una ricerca pubblicata dall’International Centre for Counter-Terrorism (ICCT) lo scorso febbraio, 186 stranieri sarebbero morti compiendo attentati suicidi nel corso dell’ultimo anno; la maggior parte proveniva dal Tagikistan, seguito da Arabia Saudita, Marocco, Tunisia e Russia. Lo studio sostiene che l’ISIS abbia cominciato a ricorrere agli attacchi suicidi per mitigare la perdita territoriale e resistere alla pressione militare. I soldati intervistati in questa settimana confermano che ci sono ancora numerosi foreign fighters. Un’altra tattica utilizzata dai miliziani per rallentare le operazioni militari è l’utilizzo dei civili come scudi umani. «Riempiono gli edifici di civili in fuga per usarli come scudi umani», spiega Josam, un soldato di Baghdad, che combatte al secondo piano della casa di Khaled, «per questo noi diciamo che è meglio rimanere nelle case».
Secondo le dichiarazioni di Amnesty International, tuttavia, centinaia di civili sono stati uccisi da attacchi aerei nelle loro case o in luoghi dove hanno cercato rifugio, seguendo il consiglio del governo iracheno di rimanere nelle abitazioni e di non scappare durante l’offensiva. Solo il 17 marzo, un bombardamento della coalizione internazionale avrebbe ucciso più di duecento civili all’interno di un palazzo. La famiglia di Khaled ha scelto di rimanere nel quartiere e di non scappare. Secondo fonti interne, ci sarebbero ancora 300mila civili intrappolati a Mosul ovest, una delle zone più densamente popolate della città. «Cosa possiamo fare?», prosegue il militare, «l’ISIS usa i civili come scudi umani. Sono due anni che siamo in guerra. Ora l’esercito iracheno è vicino e dobbiamo continuare la liberazione. Stiamo combattendo per l’Iraq per liberare il nostro paese», conclude il giovane soldato.
Nell’ospedale di Erbil, nel Kurdistan iracheno, gestito da Emergency, la maggior parte delle vittime sono civili, che hanno subito amputazioni agli arti a causa degli ordigni, esplosivi, delle schegge dei mortai e dei droni. Più del 50% sono donne e bambini. Lina, quattordici anni, ha una ferita all’addome. Un mortaio l’ha colpita nella sua casa al secondo piano. «La nostra casa era vicino alla linea del fronte e l’ISIS ci ha obbligato a lasciarla. Ci siamo spostati nella casa accanto e non appena sono salita al secondo piano, ho sentito una forte esplosione e un mortaio arrivare su di me. Arrivava dall’esercito iracheno verso le postazioni di Daesh», racconta la ragazza.
ll medico chirurgo di Emergency, Marco Pegoraro, le chiama ferite sporche: «Tutte le ferite di guerra sono per definizione sporche, perché tutte le schegge, vengono proiettate all’interno del corpo ma anche perché sono i civili a pagare il prezzo più alto dei conflitti». Dall’inizio della liberazione di Mosul ovest, lo scorso febbraio, più di 4mila civili sono stati uccisi e più di 10mila case sono state distrutte. In questa guerra urbana, fluida e irregolare, i civili sono strumentalizzati per rallentare le operazioni militari. L’ISIS forza le famiglie in fuga a entrare in alcuni edifici e, in seguito, posiziona alcuni combattenti sul tetto come trappola verso le forze irachene.
Dall’altra parte però, coalizione internazionale ed esercito iracheno bombardano interi edifici, per eliminare un piccolo numero di cecchini, consapevoli delle enormi perdite civili che tale azione può comportare. «Ci hanno detto di rimanere nelle case ma guardate, lei è un’innocente», sussurra affaticato Abu Chams, papà di Lina. «Solo le persone innocenti sono colpite, potete vedere con i vostri occhi. Siamo noi le vittime di questa guerra», conclude il padre.
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