Ritorno a Ninive
| Published on Terra Santa | January 2017 |
La liberazione di alcuni importanti centri nella piana di Ninive ha riacceso la speranza circa una definitiva cacciata dello Stato islamico. Ma i cristiani potranno mai davvero fare ritorno?
Qaraqosh. “Dobbiamo ritornare. E’ nostro dovere pulire, sistemare e rimuovere le macerie per permettere alle persone il ritorno nelle proprie case”. Sono le parole pronunciate da Paolo Thabit Mekko, sacerdote cristiano caldeo, dalla cima del monte che sovrasta il monastero di Santa Barbara a Karamless. Dall’antica cittadina assira, a circa trenta chilometri da Mosul, padre Paolo è stato l’ultimo ad andarsene nel 2014, quando i miliziani dello Stato islamico hanno cacciato i cristiani e le altre minoranze dalla regione. Dopo più di due anni, il sacerdote è stato il primo a rientrare, scortato dalle milizie cristiane – le Niniveh Plan Protection Units (NPU) – e dalla nona divisione dell’esercito iracheno.
Quasi un mese fa, con il supporto dei bombardamenti della coalizione internazionale, l’esercito insieme alle forze armate curde Peshmerga e alle milizie, ha iniziato l’offensiva per la liberazione di Mosul e dei territori conquistati dallo Stato islamico. Tra questi Baghdeda, Bartella e Karamless, storici centri assiro-cristiani.
Si combatte ancora quando i convogli militari entrano nella periferia est della cittadina. La strada che conduce a Baghdeda è sterrata, il paesaggio desertico e i terreni, un tempo coltivati, sono secchi e aridi. La maggior parte dell’area non è stata ancora bonificata; numerosi sono gli esplosivi improvvisati che i militanti dello Stato islamico hanno nascosto ovunque. Il primo villaggio è Baghdeda, rinominata dagli ottomani Qara qosh. In questo centro assiro-cristiano l’odore di bruciato trasuda dalle pareti dei pochi edifici ancora integri. L’orologio di un appartamento annerito segna le sette e dieci. All’interno macerie, stracci, stoviglie e giocattoli in frantumi. All’esterno i soldati mostrano ai giornalisti il bottino di guerra: granate, proiettili di artiglieria e i corpi dei miliziani dello Stato islamico. Sui mezzi militari dell’esercito iracheno sventola la bandiera sciita e sui vetri è incollata l’immagine della Madonna. Simboli potenti e al tempo stesso pericolosi perché dimostrano l’acuirsi della divisione settaria, all’interno di quello che dovrebbe essere l’esercito nazionale.
Il volto di Padre Paolo è visibilmente confuso. Nella sua auto, una croce ricoperta di fiori, è appoggiata sui sedili. Il sacerdote l’ha trasportata da Erbil per poterla issarla sulla piana di Niniveh. La prima tappa, però, è la cattedrale dell’Immacolata Concezione al centro di Qara qosh. Uno strato denso di fuliggine nero nasconde l’altare e ricopre gli interni di una delle più importanti chiese dell’Iraq. Le piastrelle sono sbriciolate, i vetri delle finestre sventrati dai combattimenti. Un prete più giovane, Majeed Attalla ricorda, commosso in italiano: “Ho fatto tutto qui, il battesimo, la comunione, la cresima. Dobbiamo solo ringraziare Dio se siamo potuti ritornare in questa cattedrale”. Un soldato delle milizie cristiane è fermo all’ingresso della chiesa, smarrito, quasi assente dopo aver visto tanta distruzione.
La via crucis di Padre Paolo verso Karamless ricomincia dopo una breve preghiera. All’ingresso del villaggio le case hanno i tetti divelti, alcuni edifici sono completamente bombardati e sulla strada ci sono ancora lunghe file di pneumatici lasciate dai miliziani per incendiarle e ostacolare l’avanzata della coalizione.
Il santuario di santa Barbara, del settimo secolo dopo cristo, è ancora lì però, in tutto il suo splendore nonostante gli sfregi e le barbarie compiute all’interno. Alcuni soldati festeggiano, altri portano la croce nell’atrio del monastero. Padre Paolo entra in silenzio in quella che è più di una casa per lui. Tutti i volti religiosi e le icone sacre sono sfigurate e su ogni parete appare una scritta che inneggia allo Stato islamico. Un soldato spiega che il monastero era una base dei jihadisti. All’interno hanno scavato dei tunnel per proteggersi dai bombardamenti. Tutto è ancora come l’hanno lasciato: il corano, riviste, manuali della jihad, tazzine di tè, abiti, barbe tagliate e tre indumenti intimi femminili, che dicono più di mille parole.
Il volto affaticato del prete caldeo cambia espressione dopo aver raggiunto la vetta del colle, sopra il sacro santuario. Dall’altura ci si accorge dell’infinità della piana di Niniveh. I militari che lo accompagnano iniziano a scavare il terreno per piantare la croce inghirlandata. E’ un momento quasi solenne disturbato da qualche soldato che spara verso l’alto. C’è chi piange per l’emozione e chi per la stanchezza.
“Sono rimasto fino all’ultimo in questa città, nel 2014”, spiega il sacerdote a Terra Santa, dopo aver benedetto la croce. “E’ difficile persino parlare in questo momento”. Fa fatica a raccontare il passato. “In questi anni ho sempre cercato di dare la forza, il coraggio e la speranza alla comunità cristiana ma oggi è il giorno per parlare di altro. La prima cosa che vorrei fare è una messa, da questo colle, affinché riecheggi in tutta la piana e poi fare tutto il possibile per permettere il ritorno delle persone. Noi siamo pratici ma dobbiamo far lavorare l’esercito per mettere in sicurezza e bonificare la zona”, conclude il sacerdote.
Padre Paolo è fiducioso e in grado di immaginarsi il futuro e il ritorno delle comunità autoctone. Di diverso avviso però sono alcuni dei cristiani fuggiti nel 2014 e intervistati a Erbil, pochi giorni dopo la liberazione delle cittadine assiro-cristiane. Loro il futuro faticano a immaginarselo. “Non ci fidiamo di nessuno, soprattutto del governo che ha permesso l’arrivo di Daesh. Chi ricostruirà le nostre case?”, afferma Atham P., logista per l’ong italiana Un Ponte Per. “Hanno rubato e bruciato tutto prima di andarsene perché non vogliono che i cristiani ritornino nei propri villaggi d’origine”, sostiene l’uomo. Un’altra donna cristiana, Raghda S. che vive a Erbil domanda: “Tu torneresti nel tuo villaggio, anche se ti hanno bruciato e distrutto tutto? Ti fideresti dei tuoi vicini?”.
Sono domande cui è difficile rispondere. La certezza è che anche se lo Stato Islamico sarà sconfitto in Siria e in Iraq, la comunità cristiana e le minoranze dovranno affrontare numerosi ostacoli affinché possano ritornare nelle proprie terre. Uno fra tutti il controllo e la protezione dei territori. Pochi si fidano del governo iracheno, così come del governatorato di Niniveh. Dopo l’arrivo dello Stato islamico, la diffidenza e la divisione settaria si sono accentuate e non sarà facile ricostruire la fiducia e il patto sociale per tenere unite tutte le comunità. L’altro grande ostacolo è il dopo Mosul. Chi ricostruirà i villaggi distrutti, le chiese, le case e si farà carico dell’amministrazione?
Padre Paolo si affida alla comunità internazionale: “Solo il governo non è abbastanza. Io spero che le Chiese, le ong, e la comunità internazionale ci aiutino a pulire, sistemare e ricostruire”, dichiara, “La cosa più importante però, è il perdono reale affinché non si inneschi una guerra senza fine”.