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In Bosnia Erzegovina tra le donne uscite dal buio. Source: La Stampa

A ventun anni dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina, cinque voci raccontano come vivono le donne oggi e come la loro vita è cambiata negli ultimi due decenni. Foto di Arianna Pagani

A ventun anni dalla fine della guerra in Bosnia Erzegovina, cinque voci raccontano come vivono le donne oggi e come la loro vita è cambiata negli ultimi due decenni. Solo lo scorso marzo, Radovan Karadzic, ex presidente della Repubblica Serba di Bosnia, è stato condannato a quarant’anni di carcere dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia delle Nazioni Unite per aver commesso crimini di guerra, crimini contro l’umanità e per aver avuto un ruolo attivo nel genocidio di Srebrenica del 1995. Al di là delle responsabilità, oggi sembra che tutti abbiano perso una guerra che ha causato centomila morti, più di due milioni di sfollati interni e circa venticinque mila vittime di violenze fisiche .

«Io non ho né tempo di piangere né di sentirmi vittima e non ho nessuno con cui mi devo riconciliare». Sono le parole di Kanita Focak, architetto e interprete del contingente italiano in Bosnia dal 1992 al 1995. «Io rispetto tutti perché sono cresciuta in un ambiente multiculturale; odio parlare di gruppi etnici, ma la vita di un giovane di Srebrenica vale più di quella di mio marito?». Kanita, è una signora di mezza età, raffinata e gentile. Racconta il suo passato privandolo di compassione. Di madre croata e di padre italiano, ha perso il coniuge, musulmano, tre giorni dopo l’inizio della guerra. In questi anni, non ha ricevuto nessun risarcimento, né sussidio economico.

Come lei, anche le altre donne intervistate, non hanno ottenuto alcun indennizzo dallo Stato. Dalla firma degli accordi di pace a Dayton nel 1995, la Bosnia Erzegovina è ancora oggi divisa in due entità: la Federazione, in cui bosgnacchi e croati sono maggioranza e la repubblica Srpska con i serbi in posizione egemone. Le due regioni agiscono in maniera indipendente, attuando una politica fortemente discriminatoria, strutturata su più livelli decisionali e burocratici. Un esempio di tale sistema sono i sussidi destinati alle vittime.

Zuta tabija, Sarajevo. Nella capitale, si respira aria di cambiamento: investimenti, capitali stranieri e nuove infrastrutture stanno modellando la capitale bosniaca e con essa i suoi cittadini.
Al confine tra Republika Srpska e la città di Sarajevo: nel cimitero di Niglevick sono sepolti la madre e il fratello di Ratko Mladic. Il leader militare serbo è ancora oggi accusato di crimini contro l’umanità e genocidio presso il Tribunale Internazionale dell’Aia. Sito di grande importanza per la popolazione serba
Sarajevo. Kanita Focak, bosniaco croata, oggi architetto, è stata l’interprete per l’esercito italiano durante il periodo del conflitto
Sarajevo. Kanita Focak ha perso il marito a Sarajevo tre giorni dopo l’inizio del conflitto e oggi lavora come traduttrice di lingua italiana
Sarajevo, Srebrenica Virtual Museum, Remembering Srebrenica. Tappa di molti turisti accoglie mostre permanenti sui fatti di Srebrenica
Visegrad. Mara Kuganin è arrivata a Visegrad nel 1993. Oggi fa parte dell’associazione di Andric con la quale riesce a ricevere degli aiuti. Suo padre e suo figlio hanno perso la vita sotto una granata durante il conflitto serbo-bosniaco
Visegrad. Lenka Sinikovic inisieme alla madre Mara, si occupa della serra regalatagli dall’associazione di Andric. Sia Lenka che Mara sono passate dai campi di prigionia per arrivare a Visegrad nel 1993
Visegrad. A distanza di vent’anni, la memoria della città è ancora contesa tra i serbi e i musulmani. Attraversata dalla Drina, il famoso fiume, Visegrad oggi è a prevalenza musulmana con una piccola enclave serba
Sarajevo. Lungo il confine tra la Federazione e la Rep. Serbska, ci sono ancora rovine in cui avvennero crimini di guerra.
Foča. La regione a est della Bosnia, dopo gli accordi di Dayton, diviene a maggioranza musulmana, e i serbi vennero allontanati in una piccola enclave sulla collina. Ricordata per la battaglia di Sutjeska, è divenuta tristemente famosa per le testimonianze di stupri avvenuti nei campi
Foca. L’orto nella serra di Dijana Vukovic finanziato dal programma dell’Agenzia delle Nazioni Unite.
Dijana Vukovic nata a Cogniz, paese alle porte di Sarajevo, dopo gli accordi di Dyton viene trasferita a Foča dove oggi abita insieme al marito e i suoi due figli
Località vicina a Sarajevo. In questo fazzoletto di terra Dijana Vukovic fu fatta prigioniera dai mujhaeddin durante il conflitto bosniaco. Ci restò per un anno insieme alla sorella e alla madre
Sarajevo. Dijana, giovane donna serbo bosniaca dopo vent’anni dal conflitto vive con il marito e i due figli. Non ha un lavoro e non si sente felice nella città in cui é stata costretta a vivere

Adisa Fisic, portavoce dell’associazione svizzera Trial, che assiste legalmente le vittime di crimini internazionali, racconta: «Il sistema legale di risarcimento [delle vittime] in Bosnia Erzegovina è complesso. Nella Republika Srpska, le donne vittime di violenza sessuale potevano fare richiesta fino al 2007, mentre in Federazione è ancora possibile accedere ai fondi, a patto che le donne ricevano un certificato dall’organizzazione non governativa Women War Victims Association con sede a Sarajevo, gestita però, da una donna bosgnacca, il che spesso causa conflitti d’interesse. Molte sono le donne serbe vittime di abusi che non hanno ricevuto nessun risarcimento».

Secondo l’International Council of Voluntery Agencies, il numero di ong che si occupa di donne in Bosnia– direttamente o indirettamente – è più di novanta. Molte sono diventate partner dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), coordinando gli aiuti umanitari già durante la guerra. Ne sono un esempio Medica Zenica o Tuzlanka Amika che offrivano supporto psicologico alle vittime di traumi da guerra. Tuttavia, numerose sono le ong che hanno ricevuto fondi da vari donatori internazionali – come l’Unione Europea – ma hanno avuto un impatto limitato. Lo racconta Irfanka Pasagic psichiatra e presidente dell’associazione Tuzlanka Amika: «Dopo vent’anni non esiste un coordinamento tra le diverse associazioni. Sono stati realizzati stupidi e inutili progetti. Alcuni duravano due anni e poi chiudevano. Altri erano inadatti al contesto bosniaco ma il vero problema è che molte donne hanno beneficiato di più progetti ed altre affatto».

È il caso di Dijana Vukovic, giovane donna serba, prigioniera del campo di Mussaza, rifugiata interna a Foča, dopo essere stata costretta a lasciare il villaggio nativo, Konjic. «Non ho ricevuto nessun aiuto psicologico e nessuno mi può aiutare. Non odio ma non perdono». Oggi lavora nel suo orto, unico indennizzo ottenuto grazie al programma dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, cercando di alleviare il dolore delle violenze subite dai mujaheddin. È la prima volta che Dijana parla con dei giornalisti.Ha scelto di farlo, spinta dal marito, ripercorrendo i luoghi di prigionia e di violenza. La strada che conduce al villaggio nativo di Dijana è impervia, stretta tra le pareti delle montagne. Il sole fatica a penetrare e il clima è ancora molto rigido. Lo dimostrano i tetti fumanti delle casupole sparse. Un tempo il suo paese era a maggioranza serba, oggi con i musulmani in posizione predominante. «Non tornerei mai a viverci. Se potessi, lascerei il paese oggi stesso, perché non c’è giustizia, ma ormai è troppo tardi».

Chi ha scelto di tornare nel paese originario, Goražde, situato in un’enclave serba è Esmuda Musagic, musulmana, sopravvissuta al campo di prigionia di Trnopolje. Insieme ad altre donne vittime di stupro, porta avanti l’associazione Heart of Peace. «Prima, vivevamo insieme come fratelli senza alcuna distinzione, poi la propaganda ha inserito odio nelle teste delle persone. Oggi cerchiamo di lavorare sulla memoria con i più giovani perché, ancora nel 2016, la storia della guerra è un tabù».

La memoria, infatti, è ancora un tema insoluto in tutta la Bosnia Erzegovina. I programmi d’insegnamento di storia nelle scuole variano a seconda della regione o della città; c’è una discriminazione sugli stipendi dei dipendenti pubblici e perfino sui monumenti, costruiti spesso come oltraggio alla memoria. Un conflitto silente che non fa altro che alimentare un clima di odio e d’intolleranza tra le comunità.

Sarajevo. Nadira Mingasson con il progetto Udrezene, ha messo insieme le donne di Sarajevo e delle aree più rurali che sono state vittime del conflitto bosniaco. L’obiettivo non è solo quello di affrontare il trauma della guerra ma soprattutto il reinserimento economico e sociale
Sarajevo. Nadira Mingasson è fuggita da Sarajevo all’inizio della guerra e ci è ritornata, vent’anni dopo, fondando un progetto di tessitura artigianale chiamato Udrezene
Le donne coinvolte – più di trecento in soli tre anni – seguono tutto il processo di creazione del prodotto: dalla ricerca dei fornitori alla lavorazione a maglia della lana
Prijedor. Oggi questo territorio appartiene all’entità serba di Bosnia Erzegovina. I bosgnacchi (bosniaci musulmani) e i bosniaci croati furono allontanati dalle proprie case e rinchiusi nei campi di Omarska, Trnopolje e Keraterm. Oggi, nell’area di Omarska c’è la famosa Acerol Mittal che ha reso impossibile l’avvicinamento al campo
Prijedor. Lo spazio Kvart è un’associazione non governativa gestita da giovani ragazzi del territorio. Si dichiarano antifascisti e mirano a creare attività per i giovani ragazzi della comunità. Dalle loro testimonianze sono soggetti a molte rivendicazioni e abusi da parte di ignoti
Kozarac. Esmuda Mujagic, bosniaco musulmana, è membra fondatrice dell’associazione “Throught Heart to Peace” che apre nel 1996 quando anche lei, vittima del conflitto, fa ritorno a Kozarac, nel nord ovest della Bosnia Erzegovina
Kozarac. Esmuda davanti ad uno dei pochi monumenti musulmani nella città di Kozarac, poco distante da Prijedor. Uno dei problemi é anche la scarsa pulizia dei monumenti da parte dell’amministrazione filo serbo-bosniaca
Kozarac. Esmuda ha subito violenze all’interno del campo di Kozarac da parte dei serbi dopo i fatti del 1992 che hanno visto bruciare le case dei musulmani nella zona da Prijedor a Sanski most
Sarajevo. Mira Mehmedovic ha combattuto in prima linea a fianco dell’Armata Popolare Jugoslava e oggi lavora per un’organizzazione non governativa
Sarajevo. In queste fotografie, alcuni ricordi di Lola, serbo-bosniaco, che lavorò come interprete per le Nazioni Unite durante tutto il conflitto
La guerra viene condotta ancora oggi con l’arma della memoria. Un conflitto psicologico quello di oggi in cui si alimenta un clima di odio che consiglia a chi si trova all’estero di non tornare e a chi vive in queste zone più remote di andarsene
«A mia figlia faccio fatica a spiegare il perché di questa guerra e per quanto mi sforzi di farla crescere in un ambiente culturalmente aperto, la divisione tra le comunità è ormai evidente». Mira Mehmedovic, cresciuta in un miscuglio multietnico come molte famiglie di Sarajevo (il padre era bosgnacco e la madre serba), ha combattuto in prima linea a fianco del nuovo esercito della Bosnia Erzegovina. «Quando è iniziata la guerra, avevo diciotto anni e ho detto a mio padre che volevo diventare soldato. Sono diventata un’infermiera di guerra». Oggi Mira, sposata con un serbo, lavora per un’organizzazione cattolica non governativa, assistendo e appoggiando il ritorno degli sfollati interni nei luoghi di origine. «La difficoltà maggiore è convincere le persone a ritornare nei propri villaggi natii, soprattutto quando i carnefici vivono ancora lì, impunemente», conclude la donna.

Ad eccezione di Sarajevo e delle città più popolose, la maggior parte delle donne vive in villaggi e in paesi isolati, escluse dalla vita sociale, politica ed economica. L’attuale situazione economica unita a un alto tasso di disoccupazione e a una cultura discriminatoria ha peggiorato la condizione della donna rispetto al periodo socialista guidato da Tito.

L’associazione Donne Unite, Udruezene nasce proprio per raccogliere le donne delle aree più remote vittime del conflitto bosniaco e di abusi domestici. Lanciato da una designer bosniaca, Nadira Mingasson, il progetto di tessitura artigianale ha come obiettivo quello di affrontare il trauma della guerra ma soprattutto il reinserimento economico e sociale. «Ciò che queste donne hanno bisogno è di stare insieme e sentirsi di appartenere a qualcosa». La giovane stilista, fuggita all’inizio del conflitto, ha scelto di ritornare a Sarajevo e di investire in questo progetto imprenditoriale che oggi vende i capi di abbigliamento nelle boutique europee più famose di alta moda. «Tutte le donne sono vittime in questo paese, nessuna esclusa. Per questo, una delle regole è non parlare di religione. Siamo qui solo come donne», afferma Nadira.

È difficile negare che il conflitto sia stato caratterizzato da una politica di sterminio nei confronti dei musulmani di Bosnia Erzegovina ma le storie di queste donne narrano il conflitto – e gli anni seguenti – privandolo di ogni gerarchia del dolore e categoria etnica di appartenenza. Tutte ne hanno sofferto – siano serbe, musulmane o croate – e tutte, oggi, resistono in silenzio, in una società patriarcale, intrisa di retoriche nazionaliste, eredità delle divisioni sancite dagli accordi internazionali.

Fonte: La Stampa

http://www.lastampa.it/2016/05/18/medialab/webdocauto/fuori-dal-buio-donne-oggi-in-bosnia-erzegovina-5pUEJ0dqorYabll6rB0YmN/pagina.html