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Sulla cultura mafiosa. Il caso di Corigliano Calabro

In alcuni territori del nord come del sud – caratterizzati da una forte presenza del fenomeno mafioso – c’è una trasmissione di valori distorta, in cui la “fimmina” è costantemente reietta e discriminata, in cui la vendetta è l’azione obbligatoria per la riappropriazione del rispetto e l’uso della violenza è indispensabile per la conservazione del proprio onore. Questo il caso di Corigliano Calabro

Come spesso accade in Italia, in seguito ad un cruento omicidio, i palinsesti televisivi sono modificati e riformulati attorno all’evento delittuoso del momento e centinaia di intrattenitori del pubblico pomeridiano si scoprono sorprendentemente criminologi, investigatori ed agenti inquirenti. Così è accaduto anche nell’ultimo feroce fatto di cronaca verificatosi a Corigliano Calabro in cui una adolescente di appena quindici anni, Fabiana Luzzi, è stata accoltellata, cosparsa di benzina e bruciata dal fidanzatino diciassettenne. Tra i tanti articoli, editoriali e interviste a questo o a quel criminologo, ciò che più mi ha contrariata sono state le parole di una sociologa tedesca, Renate Siebert, in risposta alla lettera aperta scritta da una trentenne calabrese, Francesca Chaouqui, direttrice delle relazioni esterne di una multinazionale, pubblicata sul sito internet del Corriere della Sera: “Una storia come questa – dichiara la sociologa – potrebbe essere accaduta in qualsiasi altro posto d’Italia. Trovo assolutamente razzista e aberrante che si possa parlare, in questa vicenda, di specificità calabrese”.

Razzista e aberrante? Io non sono una sociologa né una criminologa ma ho studiato e imparato a conoscere il sistema valoriale e il codice culturale di aree a tradizionale insediamento mafioso. In queste regioni l’utilizzo e il ricorso alla violenza è sistematico e orientato al conseguimento dell’onore; la vendetta diventa un’azione obbligatoria per non perdere la reputazione sociale. Ed in questi contesti l’uomo, per dare dimostrazione della propria virilità, deve far uso della violenza anche nei confronti delle donne. Scrive Pino Arlacchi che “Essere un uomo significa, in una zona mafiosa, dimostrare di essere orgogliosi e sicuri di sé, pronti a reagire con rapidità ed efficacia alle minacce dell’onore individuale e familiare che nascono numerose dall’arena sociale”; prosegue sempre nel suo libro “La mafia Imprenditrice”: “Una importante conseguenza della guerra di tutti contro tutti che domina le aree caratterizzate dalla presenza del fenomeno mafioso consiste nel fatto che nulla, in fondo, può essere realmente ingiusto. L’onore è connesso alla prepotenza e alla forza fisica piuttosto che alla giustizia”.

Di certo, non si vuole criminalizzare un’intera comunità ma neanche si può negare che in alcuni territori, del nord come del sud – caratterizzati da una forte presenza del fenomeno mafioso – vi sia una trasmissione di valori distorta, in cui la “fimmina” è costantemente reietta e discriminata, in cui la vendetta è l’azione obbligatoria per la riappropriazione del rispetto e l’uso della violenza è indispensabile per la conservazione del proprio onore.

Se si respira quest’aria fin da bambini e si cresce con questi codici culturali non ci si può stupire che, dalla Calabria alla Lombardia, due donne, Fabiana Luzzi e Lea Garofalo, siano state ferocemente uccise e bruciate. La loro colpa? Aver infranto quelle leggi non scritte che vigono all’interno dei sistemi culturali di tipo mafioso.

Articolo tratto da Stampo Antimafioso

http://www.stampoantimafioso.it/2013/05/31/sulla-cultura-mafiosa-il-caso-di-corigliano-calabro/